Rossella Pivanti. Presente e futuro del podcast.

Apr 24, 2021

Giovedì 22 aprile, durante il mio Live Show, ho intervistato Rossella Pivanti, audio producer specializzata nella creazione di branded podcast, serie audio e audiodocumentari. Entrando nel vivo dell’argomento, le ho chiesto perché secondo lei un’azienda oggi deve fare podcast. A suo parere, per tanti anni alle aziende è stato detto di puntare sull’immagine, poi sul “metterci la faccia” e infine sui contenuti video. Oggi invece bisogna puntare sulla voce. Perché i brand attualmente hanno un logo, un colore, un’immagine o il volto di qualcuno, ma non hanno una voce: escludendo Autostrade e Trenitalia, gli altri brand infatti devono ancora capire che voce e che accento hanno.

A proposito di accenti, il problema di alcuni clienti che si avvicinano al mondo dei podcast è che sono alla ricerca di doppiatori perfetti e non di voci. Per Rossella il doppiaggio è un lavoro nobilissimo, ma utilizza linguaggi ed espressioni di determinati ambiti: dal pubblicitario al televisivo, dal radiofonico al teatrale, passando per il cinematografico. Ma il podcast è un ambito ancora nuovo, per il quale vanno trovati nuovi registri comunicativi. E nel podcast l’unica intenzione possibile è quella naturale. Altrettanto importante è creare un linguaggio, perché le community si creano proprio intorno a questo: oltre al logo, all’immagine e ai colori bisogna curare il proprio modo di parlare per essere immediatamente riconoscibili. Perché una storpiatura, un accento o una tonalità creano identità di brand. Però le aziende devono “sbottonarsi” un po’, perché utilizzano ancora voci pulitissime, dalle quali vengono tolti i respiri e gli accenti.

Per spiegare questo concetto, Rossella mi racconta un episodio divertente che le è capitato. Durante il primo lockdown lei e i suoi collaboratori stavano facendo una diretta con vari ospiti. Tra loro c’era un rappresentante del Cerbero, un podcast che si trova su Twitch. Cerbero ha una community molto forte, che si riconosce a livello identitario per un modo di parlare talmente specifico che, quando i fan del podcast sono entrati in chat, quest’ultima è diventata ingestibile perché era come se parlassero una lingua straniera. E per comunicare con questi utenti è stato necessario acquisire il loro linguaggio, che si caratterizza per essere un po’ greve.

Ma quali consigli si possono dare a chi vuole avvicinarsi al mondo dei podcast? Rossella inizia affermando che il podcast, da solo, non è la panacea per tutti i mali e che va inserito in una strategia. Ciò è importante anche solo per misurare se un determinato podcast funziona o no. Perciò bisogna decidere a monte quale può essere un KPI, ossia una metrica che permette di valutare l’efficacia del podcast. Una volta deciso se puntare sulle vendite, sull’awareness o sulla percezione, si può costruire il proprio progetto podcast. Se invece si fa il contrario, non è detto che questo progetto porti al raggiungimento dell’obiettivo. Molti brand partono dall’idea che un podcast debba aiutarli a vendere un prodotto. Se quest’idea è in parte condivisibile, bisogna anche tenere presente che il podcast è molto a monte della strategia: nel funnel ipotetico che ci porta dal non conoscere affatto il brand al voler comprare i suoi prodotti, il podcast si trova in alto, al livello dell’awareness. Perciò i brand, invece di decidere di fare un podcast solo dopo aver fatto tutto il resto, dovrebbero prima fare il podcast, poi raccogliere i dati e in seguito sulla base di questi impostare la propria strategia di advertising o di comunicazione.

Una volta deciso di fare un podcast, si deve anche capire cosa dire al suo interno. Spesso le aziende vogliono raccontarsi in modo autocelebrativo, mentre dovrebbero chiedersi come possono essere utili per chi le ascolta. Rossella ritiene che i brand dovrebbero mettersi nei panni del pubblico e capire che spesso non gli interessa che parlino di loro stessi. Mentre Apple può permettersi di fare un podcast autocelebrativo, perché negli anni ha lavorato per fidelizzare i suoi consumatori e trasformarli in veri e propri fan, un’azienda della GDO che punta su altri valori quali ad esempio la comodità e la convenienza deve fare un podcast che aiuti il suo pubblico. In alternativa, dato che siamo in un periodo triste, potrebbe scegliere di intrattenerlo. Perché il brand che si posiziona al livello dell’utente e che lo coinvolge risulta molto più umano e interessante ai suoi occhi.

Rossella ed io abbiamo parlato anche del futuro dei podcast. Personalmente sento dire da molto tempo che questi sono fantastici e che presto avranno un futuro radioso, ma anche se ogni anno le loro performance migliorano, le loro vanity metrics sono lontane da quelle dei video: i risultati sono interessanti e concreti, ma per convincere le aziende e le agenzie bisogna avere dei numeri più sostanziosi. Perciò nel futuro accadrà qualche cambiamento o la crescita dei podcast continuerà a essere organica come oggi? Per Rossella ci sarà uno switch, che inizia già a intravedere, sui creator indipendenti. Questo cambiamento, che va nella direzione dell’influencer marketing, è già avvenuto nel mondo dei video: le aziende invece di prendere una persona qualsiasi preferiscono rivolgersi a chi ha già creato contenuti sul web, ad esempio su Instagram, TikTok o YouTube, chiedendogli di brandizzare i suoi contenuti. E la stessa cosa sta avvenendo per i podcast negli Stati Uniti: qui i brand che inizialmente creavano delle serie podcast ad hoc adesso preferiscono andare dal creator indipendente che si è creato una community verticale su un argomento specifico, diventando famoso su quello. In questo caso, l’azienda sponsorizza la serie inserendo nel podcast la sua pubblicità, oppure chiede direttamente al creator di parlare di lei.

A questo punto ho chiesto a Rossella quanto sono importanti i dati forniti dai podcast per i brand e per i creator. A suo parere, i dati sono molto importanti ma non devono riguardare il numero degli ascolti. Nei podcast infatti si misura la redemption: ad esempio, su un podcast di venti minuti bisogna chiedersi quanti minuti sono stati ascoltati dal pubblico. Restando in tema di risultati, ho domandato a Rossella cosa rappresentano per lei le classifiche. La sua risposta è che per fortuna al momento queste non riguardano tanto il numero degli ascolti e sono molto meritocratiche perché si basano sulle azioni compiute effettivamente dagli ascoltatori, come le iscrizioni e le recensioni. Gli ascolti sono soltanto una conseguenza di queste azioni, perché avere tanti non significa essere primo in classifica. Al contrario, essendo primo in classifica arrivano tanti ascolti. E questo ci permette di capire che per avere visibilità oggi è fondamentale creare una community.

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